Il patriarcato e la vera battaglia per la dignità della persona

Contro la violenza alle donne

Mi meraviglio della meraviglia di tante persone e, soprattutto, di molti di quei politici cosiddetti conservatori e di destra e, persino, di giornalisti bravi e preparati, che gridano allo scandalo perché sinistra, pensiero unico, grandi organi di stampa, attribuiscono la violenza contro le donne alla “cultura patriarcale”, che dominerebbe la vita sociale del nostro Paese.

Ma come? Abbiamo dimenticato che da sempre il progressismo di tutti i colori, quello rivoluzionario, quello riformista, quello liberal, ha attribuito la responsabilità di qualsiasi tipo di reato, di devianza, di patologia, alla società, alla classe, alla famiglia e non alle singola persona? Ai nostri giorni è la volta della società e della cultura patriarcale.

Eppure se si riuscisse a portare il ragionamento sul piano culturale, si potrebbero comprendere gli attacchi scomposti di una Lilli Gruber al premier Giorgia Meloni e le farneticazioni di una sinistra ormai alla “frutta”, che non sa più quali argomenti utilizzare per spiegare gli ultimi, terribili casi di femminicidio e di violenze sulle donne.

Sono due secoli ed oltre, che così vanno le cose. A partire cioè dalla illuministica teoria pedagogica di Jean Jacques Rousseau, che portò un duro colpo all’educazione tradizionale e familiare e mise in moto un movimento di deresponsabilizzazione delle singole persone per distruggere comunità, famiglie e corpi intermedi.

Dai tempi della Rivoluzione francese infatti il progressismo scarica le responsabilità dell’individuo sulla società in quanto tale e giustifica crimini, violenze e soprusi come effetto del contesto nel quale il giovane si forma, mettendo così in discussione i pilastri di una sana educazione, che nulla hanno a che vedere con il patriarcato, bensì con la centralità della persona e con il concetto di responsabilità del singolo.

Già agli albori del moto dell’Ottantanove, l’illuminista Jean J. Rousseau, poi diventato riferimento culturale della sinistra intellettuale, nel suo “Emilio” proponeva un modello educativo ‘naturale’, da coltivare al di fuori del contesto sociale che avrebbe potuto corrompere il giovincello. Un errore gravissimo che tra i progressisti ancora oggi continua a produrre i suoi effetti anche nello smantellamento del ruolo della famiglia e del perno educativo genitoriale, della paternità. Nel libro I dell’“Emilio” Rousseau enuncia il “grande principio”, secondo cui l’uomo è originariamente buono, ma attraverso i rapporti sociali va incontro ad una degenerazione. Niente di più falso e soprattutto di più lontano dalla realtà antropologica del nostro essere: l’uomo non è nato buono, ma dispone di una natura che può tendere verso “l’alto”, verso il cielo e la trascendenza o verso il basso cioè verso gli istinti più animali e belluini (non a caso il grande pensatore greco Platone con il mito della biga alata trainata da due cavalli, uno tendente verso l’alto e l’altro verso il basso, suggeriva al guidatore della biga di tentare di mantenere in equilibrio i due destrieri). Ed anche secondo la dottrina cristiana, l’uomo è nato ferito dal peccato originale e, quindi, non nasce buono, ma è solo il libero arbitrio che ci porta a scegliere tra bene e male e, perciò ciascuno di noi è responsabile di ogni nostra azione.

Ma questa scelta può e deve essere indirizzata ed incentivata.

È la società, lo Stato, la legge, la scuola, la famiglia, che devono saper porre le regole, devono sviluppare progetti educativi che rendano più facile la scelta tra il bene ed il male. Altro che “giustificazionismo sociale”, che demonizza le regole e manipola il concetto di educazione.

La violenza sulle donne, dunque, si combatte culturalmente con la prevenzione delle regole e sui comportamenti, con l’affermazione dei principi della tutela della vita e dei doveri sociali, in tutte le sue forme: la dignità della donna e della famiglia può ancora essere il perno sociale nel quale far crescere persone responsabili individualmente, non assolti grazie ai guasti della società e genericamente degli altri, significa far crescere i ragazzi rispettosi di sé stessi, delle persone con cui convivono, delle donne e anche dell’autorità dello Stato, che inizia proprio tra le mura di casa. La famiglia, purtroppo, anche a causa della sinistra, è già abbastanza in crisi e distrutta dalla cultura della asocialità e dell’anarchia, ed è questo uno dei motivi dei guasti all’educazione sentimentale delle nuove generazioni.

Le regole e le pene servono anche a controllare gli istinti ’animali’ di ciascuno di noi; la malvagità purtroppo è anche frutto di inclinazioni personali e l’autorità serve a imbrigliare i comportamenti a rischio e indirizzare le relazioni sociali verso il rispetto degli altri, non verso il dominio sugli altri, altro che patriarcato, altro che idea di destra.

Si tratta, perciò, di fronte ad episodi così efferati come quelli ai quali assistiamo in questi ultimi tempi di approntare, per poter fare prevenzione, strumenti di carattere culturale ed educativo. La verità è che sulla violenza di genere servirebbe un Paese la cui classe politica si unisca sulle soluzioni e non si divida per polemiche di parte e per interessi di bottega.

Questo tirare in ballo la responsabilità di una cultura considerata patriarcale è l’applicazione dello schema pedagogico del rivoluzionario Rousseau, quasi un riflesso condizionato dei progressisti di sempre che, oltretutto, sferra un ulteriore, micidiale attacco alla famiglia naturale ed in particolare alla figura del padre ed a quel che resta di un simulacro di autorità che, purtroppo, è sempre più raro.

Altro, dunque, che società patriarcale che sarebbe responsabile di tutti i mali che affliggono l’umanità, come quello che ha visto Filippo Turetta massacrare ed uccidere a coltellate Giulia Cecchettin.