La libertà di educazione è ancora lontana

Renzi esordì come capo del Governo, facendo la promessa di voler mettere in sicurezza tutte le scuole disastrate del nostro Paese. Poi dal 15 settembre al 15 novembre del 2014 aprì una consultazione per stabilire come riformare la scuola italiana. A gennaio del 2015 annunciò trionfalmente un decreto legge su , “La buona scuola”, che avrebbe celebrato adeguatamente un anno esatto del suo Governo.

Poi è saltato tutto, in quanto il premier, lasciando esterrefatta la Ministro della Pubblica Istruzione, Stefania Giannini, si convinse che: “ci sono troppe materie dentro questo decreto” (dall’autonomia all’offerta formativa; dalla carta dello studente ai laboratori territoriali per l’occupabilità; dall’inclusione scolastica degli alunni stranieri all’assunzione dei 123 mila insegnanti precari, dagli sgravi fiscali per le famiglie che mandano i figli alle scuole paritarie, alla innovazione tecnologica, ecc ecc.) e che “quelle urgenti si mescolano con le meno urgenti. Meglio che si esprima il Parlamento – disse il Capo del Governo – dobbiamo mettere le Camere nelle condizioni di lavorare al più presto”.

Poi arrivò il varo del Disegno di legge e la sua approvazione e le famiglie, che mandano i propri figli alle scuole paritarie si accorsero che avrebbero dovuto ancora aspettare per lungo tempo di veder riconosciuto il proprio diritto alla libertà di educazione, perché la montagna ha partorito un topolino con uno sgravio fiscale fino a 400 euro all’anno, per rette fino ai 2.500 euro, che significa un risparmio in busta paga di 75 euro all’anno.

Contrariamente a quanto dichiarava la ministra del MIUR, che evidentemente conta veramente come l’asso di picche, che continuava a promettere sgravi per tutte le paritarie fino a euro 4.000, ed a dichiarare che “la detrazione [ fiscale per le famiglie che mandano i figli alle scuole paritarie ] ci sarà” perché abbiamo fatto “un cambio culturale molto importante”. Cosi come il Sottosegretario Gabriele Toccafondi, esponente del Nuovo Centrodestra che alla vigilia del Consiglio dei Ministri, che avrebbe varato il provvedimento enfaticamente, prometteva che il Governo aveva pensato «a sgravi fiscali pari al 19 per cento delle rette pagate per far studiare i figli negli istituti educativi non statali. Si tratta di un primo passo verso la parità economica e la libertà di scelta scolastica. Un criterio di “sussidiarietà” che costituisce una novità nel comparto istruzione del nostro paese. Attualmente le detrazioni tributarie vengono applicate in tanti settori. Non vedo perché non farlo per un servizio pubblico fondamentale».

Eppure su questo tema che interessa quasi un milione di studenti (il 12% mentre negli anni 50 erano il 27%) contro i nove milioni delle scuole statali; che riguarda diverse migliaia di istituti (solo quelli associati alla Fidae, la Federazione delle scuole cattoliche, sono 13 mila) con 100 mila dipendenti tra insegnati e personale di servizio e che consentono allo Stato di risparmiare almeno 6,3 miliardi di euro all’anno, si erano pronunciati ben 44 parlamentari della maggioranza, tra i quali alcuni del Nuovo Centrodestra e gran parte di area PD, i quali in previsione dell’uscita del decreto sulla “Buona Scuola”, avevano firmato una lettera aperta al Presidente del Consiglio Renzi per chiedere che si superi “lo storico gap della scuola in tema di pluralismo e libertà di educazione” e che, dopo più di quindici anni dall’approvazione della Legge “Berlinguer”, finalmente si prendano provvedimenti per “favorire la parità scolastica con un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, sulla base del costo standard”, per realizzare “un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo”. E questa presa di posizione non è davvero poca cosa, considerato il clima che su questi temi ha caratterizzato il nostro paese fino a ieri.

Ma praticamente tutto è rimasto sostanzialmente fermo alla legge n° 62 del 2000 voluta quindici anni fa dall’allora Ministro dell’Istruzione, il pidiessino Luigi Berlinguer che, benché priva di copertura finanziaria, equiparò scuola statale e “scuola paritaria” in un unico sistema formativo pubblico, precisando in cosa consista un’“autentica sussidiarietà” anche nella scuola: “pubblico è il servizio, non necessariamente chi lo eroga”.

Di fatto – bisogna riconoscerlo – salvo questa “incursione” di un ministro comunista, “mai nessun politico che si definisse cattolico si era azzardato a tanto!!!”.

Per questo la legislazione italiana su questo tema è rimasta pressoché ferma nei suoi principi ispiratori alla concezione statalistica postunitaria. Risulterà chiaro, infatti, anche dal raffronto con le normative in materia, che tutti gli stati dell’Europa, Francia compresa, da decenni ormai hanno posto sullo stesso piano giuridico ed economico sia la scuola dipendente direttamente dallo stato sia la scuola libera o autonoma che dir si voglia.

Da ciò deriva che non si tratta – come vorrebbe ancora far apparire qualcuno in mala fede – di una questione che riguarda esclusivamente i cattolici (anche se in effetti la tradizione pedagogica degli istituti religiosi è quella che più resiste nel nostro Paese e se le scuole gestite da enti ecclesiastici e religiosi rappresentano oltre il 70% di tutto il settore della scuola non statale) ma che interessa tutti i cittadini indistintamente, perché su questo tema si giocano le sorti dell’ultimo dei diritti naturali che la civiltà moderna ci ha lasciato: quello dell’educazione dei figli.

Se si esclude il caso dell’Italia, tutti i Paesi membri della Comunità Europea hanno da tempo risolto il problema del rapporto tra la scuola dello Stato e la scuola non statale attraverso una legislazione paritaria che riconosce e garantisce, anche dal punto di vista economico, il diritto delle famiglie e dei singoli di scegliere liberamente i “luoghi dell’educazione”. Questo saggio rappresenta il tentativo di affrontare e superare in modo nuovo, sia dal punto di vista della dottrina costituzionale che sotto il profilo dell’analisi economica, le questioni che da sempre fanno della “parità scolastica” un nodo irrisolto della storia e della politica italiana. In particolare l’autore sottolinea come l’effettiva tutela del principio della libera scelta educativa costituisca ormai condizione imprescindibile per il decisivo passaggio da un regime giuridico concessorio nel quale lo Stato è padrone di riconoscere o non riconoscere i diritti ad un ordinamento nel quale lo stato è padrone di riconoscere o non riconoscere i diritti ad un ordinamento nel quale lo Stato debba finalmente limitarsi a riconoscere, tutelare e promuovere le iniziative e gli spazi di libertà di singoli e gruppi sociali, in conformità con il modello di pluralismo istituzionale delineato dalla Costituzione.

Ma andiamo per gradi, iniziando a chiarire per quali istituzioni scolastiche vale il discorso della cosiddetta parità e per quali alunni e di quali scuole si richiede il trattamento “equipollente” a quello riservato agli alunni delle scuole statali di cui parla la nostra Costituzione all’art. 33.

Certamente non si è mai inteso estendere benefici di alcun genere a quelle scuole che, essendo configurabili come vere e proprie imprese, hanno come oggetto sociale e come scopo precipuo quello del lucro e, quindi, non intendono né pretendono di svolgere un servizio pubblico alla collettività, come invece quelle altre scuole che fanno capo ad enti, congregazioni, cooperative che non hanno scopo di lucro e che sono inserite nella programmazione scolastica territoriale, che eleggono al loro interno i previsti organi collegiali, che rendono noti con la necessaria trasparenza i rispettivi bilanci, che assumano a norma di legge e dei contratti collettivi insegnanti che abbiano i prescritti titoli di studio, che osservano le vigenti norme di igiene ambientale, che offrano, infine, un tipo di insegnamento che si ispiri ad un progetto educativo qualificato e qualificante.

E’, perciò, veramente scorretto da parte di chi si oppone alla liberalizzazione del nostro sistema educativo continuare a tirare in ballo esempi di scuole del tipo di quelle di “recupero” o dei “tre anni in uno” che molto spesso salgono anche agli onori delle cronache risultando dei veri e propri diplomifici.

Del resto la nostra Carta Costituzionale anche se con norme di carattere generale che dal giorno della sua promulgazione attendono ancora di veder varate le necessarie leggi applicative e, soprattutto, da quando la Corte Costituzionale con sentenza del 4 giugno 1958 cancellò l’art. 3 ed i commi I, II e III dell’art. 4 della Legge 19 gennaio 1942 nr. 86, che disciplinava l’istituto dell’autorizzazione all’apertura di nuove scuole non statali, ha già individuato e delimitato il campo entro il quale può essere concessa la parità alle scuole non statali e stabilito per quali alunni debba essere assicurato un trattamento “equipollente” a quello degli alunni delle scuole statali.

L’art. 33, infatti, chiaramente identifica tra tutte le scuole private di cui al III comma, quelle “che chiedono la parità”, prescrivendo subito dopo che la legge “deve assicurare ad esse piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. E ciò nello spirito dei principi inderogabili costituzionali che tutti i cittadini sono uguali difronte alla legge; che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociali che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3)”; che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30)”; che “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relatici (art. 31)”; che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento (art. 33)”; che “la istruzione inferiore, impartita, per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita (art. 34)”;che “i capaci ed i meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. 34)”; ed, infine, che “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale (art. 38)”.

E che questa sia la volontà del legislatore lo dimostra anche il fatto che in maniera esplicita il Nuovo Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, stipulato il 18/02/1984, all’art. 9, primo comma, recita testualmente: “la Repubblica italiana, in conformità al principio della libertà della scuola e dello insegnamento nei termini previsti dalla propria Costituzione, garantisce alla Chiesa cattolica il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione. A tali scuole che ottengono la parità è assicurata la piena libertà e ad i loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di stato”.

In effetti tutta la concezione che permea la nostra carta fondamentale è quella di una scuola come servizio pubblico, svolto nell’interesse della comunità nazionale, indipendentemente da chi ne usufruisce e da chi lo svolga (Stato o enti privati purché nell’ambito di quelle norme generali dettate dal II comma dell’art. 33).

Proprio per questo, voler continuare ad insistere su quel “senza oneri per lo Stato” di cui al III comma dell’art. 33 da parte di coloro che restano arroccati su posizioni monopolistiche significa voler disattendere e contraddire lo spirito della nostra Costituzione perpetuando una discriminazione nei confronti di milioni di cittadini e proseguendo in quella tradizione statalistica che ha informato, dall’unità d’Italia ad oggi, la politica scolastica del nostro Paese.

LA LEGISLAZIONE SCOLASTICA POSTUNITARIA

I primi decenni dello stato unitario, dominato dalle componenti culturali repubblicano-mazziniana e liberal-socialista, videro l’affermazione e l’ampliamento del monopolio dello stato nel settore dell’istruzione rivendicata come compito esclusivo e precipuo di uno stato veramente laico.

Bisognerà, quindi, arrivare all’avvento del fascismo per veder aprirsi una prima breccia in questo monolitismo educativo, prima con la legge 6 maggio 1923 nr. 1054, con la quale allievi di scuole statali e di scuole private furono messi sullo stesso piano dinanzi all’esame di stato (fu Giovanni Gentile a dare spazio all’iniziativa privata) e poi con il RD 4 maggio 1925 nr. 653 che riconosceva per alcune categorie di studenti il valore dei titoli di studio conseguiti e la possibilità di accedere agli esami di maturità come gli alunni delle scuole statali; riconoscimento ben presto (RD 25/4/1929 nr. 647) esteso a tutti coloro che frequentavano istituti scolastici privati dipendenti da province, comuni, opere ed associazioni.

Contrariamente a quanto si possa pensare, gli è che fu proprio durante un regime che si definì totalitario che furono gettate le basi giuridico-legislative che dovevano condurre a quella concezione di libertà educativa enunciata – male e confusionariamente per il compromesso cattomarxista – come ho dimostrato prima, nella nostra Costituzione.

L’istituzione dell’ENIM, Ente Nazionale Scuola Media, preposto al coordinamento di tutta la scuola non statale, doveva preludere, appunto, alla Legge 19 gennaio 1942 nr. 86 che introdusse il riconoscimento legale di tutti i titoli di studio, ed a tutti gli effetti, conseguiti dagli alunni di istituti gestiti da enti o da privati.

Questi vennero definiti “gestiti” od “associati” a seconda dei requisiti richiesti per ottenere tali qualifiche: proprio come è avvenuto – guarda caso – alcuni decenni dopo in Francia con la riforma Debrè che dopo la guerre scolaire ha riordinato tutta la scuola francese e come, a grandi linee, in questi ultimi anni viene riproposto in tutti i progetti di legge presentati al nostro Parlamento.

In tal modo lo stato fascista ampliava ancora di più nel campo dell’autonomia scolastica quanto il Concordato del 1929 aveva stabilito già per le scuole cattoliche: “per le scuole di istruzione media tenute da enti ecclesiastici e religiosi rimane fermo l’istituto dell’esame di stato ad effettiva parità di condizioni per i candidati di istituti governativi e candidati di dette scuole”.

Il mondo cattolico tra gli anni venti e trenta del secolo scorso seppe utilizzare queste normative e riuscì ad organizzare una rete capillare di scuole a partire da quelle materne.

Tabella 1

Alunni iscritti alle scuole statali e non stabili nel 1948

Scuole Popolazione scolasticha totale %private di cui gestite da enti religiosi

Materna 918.000 78% 55%

Primaria 4.843.000 7% 83%

Secondaria di I grado 528.000 22% 59%

Secondaria di II grado 342.000 24% 55%

Totale 6.631.000 19% 63%

Fonte: Ciani, Valitutti, 1965, pag. 222

Veniva così risolto il problema della parità giuridica tra scuole di stato e scuola cosiddetta “conformata” non statale, mentre, anche perché allora non ritenuto influente e determinante per la libertà di scelta delle famiglie che erano in grado di sostenere agevolmente le rette degli istituti cattolici che utilizzavano personale religioso, veniva rinviato quello economico, che ai nostri giorni il governo Renzi avrebbe dovuto risolvere.

L’art. 33 al III comma di fatto ha bloccato sempre dal 1947 ogni tentativo di proseguire sulla strada della parificazione economica, proprio mentre tutta la legislazione internazionale si muoveva a grandi passi in quella direzione e tutti gli Stati dell’Europa addirittura adottavano provvedimenti per porre una volta per sempre sullo stesso piano scuole di stato e scuole libere.

Basterebbe solo ricordare, per quanto riguarda il diritto internazionale, peraltro liberamente accettato e ratificato con leggi nazionali del nostro stato, solamente: la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” dell’ONU, sottoscritta dall’Italia il 15/12/1955 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”); la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo” del 20/11/1959 (la responsabilità educativa “incombe in primo luogo sui propri genitori”); la “Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” firmata a Roma il 4/11/1950 ed il suo “Protocollo addizionale” del 20/03/1952 (“lo stato nell’esercizio delle funzioni che assumerà nella competenza dell’insegnamento e della educazione, rispetterà il diritto dei genitori d’assicurare quella educazione e quell’insegnamento conformi ai propri convincimenti religiosi e filosofici”), ratificata dall’Italia il 13/12/1957; il “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” del 1966; la “Convenzione internazionale contro la discriminazione nel settore dell’istruzione” del 1960, la Sentenza del 7/12/1976, Serie A nr. 23 della Corte Europea dei diritti dell’uomo, e, soprattutto la Risoluzione “Luster” approvata dal Parlamento Europeo il 14/03/1984 con la quale non solo si riconfermava che “il diritto alla libertà d’insegnamento implica l’obbligo da parte degli stati membri, di rendere possibile l’esercizio pratico di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti ed all’adempimento dei loro obblighi, con le stesse condizioni di quelle di cui beneficiano le scuole pubbliche corrispondenti, senza discriminazioni nei riguardi dei gestori, dei genitori, degli alunni o del personale (nr. 9)”, ma si fornivano anche le misure di attuazione (nr. 3) e si indicavano gli eventuali strumenti giurisdizionali da attivare in caso di violazioni: “la Commissione della Comunità Europea in caso di fondato sospetto di violazione del diritto alla libertà d’insegnamento e di istruzione, avvia le procedure applicabili nei casi di violazione dei diritti fondamentali e dei principi generali della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, riconosciuti dalla Comunità”.

E che la Risoluzione “Luster” sia stata approvata in special modo per stati come l’Italia, lo dimostra il fatto che tutti gli altri membri della Comunità hanno già da diverso tempo regolamentato tutta la materia, garantendo ampi spazi di libertà “effettiva” a tutti gli enti ed i soggetti che concorrono insieme alla scuola dello stato all’educazione nazionale. Nel 1994 arrivò poi l’importante pronuncia della Corte Costituzionale che considerava ingiustamente discriminatoria l’esclusione dal godimento di provvidenze statali ( per l’acquisto dei libri di testo) di quegli alunni che avevano scelto di assolvere l’obbligo scolastico in scuole non statali. Infine viene varata finalmente la legge sulla parità (L. 62/00) che con il decentramento e con l’autonomia, sancisce il principio di “sussidiarietà orizzontale” con l’ingresso nel servizio pubblico di scuole istituite sia da enti locali che da soggetti privati.

Il riconoscimento della parità (in realtà, una presa d’atto dei requisiti richiesti dallo Stato), almeno sul piano formale, inserisce la scuola “privata” nel sistema pubblico nazionale di istruzione.

Da parte sua, la scuola paritaria si impegna a contribuire alla realizzazione della finalità di istruzione ed educazione che la Costituzione assegna alla scuola e al rispetto delle regole di organizzazione, di gestione e di funzionamento previste dalla legge.

Tabella 2

% degli allievi delle scuole non statali paritarie sul totale degli iscritti (1950-2010)

anni infanzia primaria secondaria di I grado secondaria di II grado totale

1950 81% 7% 46% 24% 27%

1960 65% 9% 11% 17% 22%

1970* 60% 7% 5% 11% 18%

1980 60% 8% 5% 11% 19%

1990 48% 8% 5% 9% 17%

2000** 41% 9% 5% 7% 17%

2010 41% 7% 4% 6% 16%

2013 38% 7% 4% 6% 12%

*stima Istat **stima Miur

Fonte: dal 1950 al 1990: Istat, 2011; dal 2000 al 2013: Miur, 2011, 2014.

Gli obiettivi della legislazione sull’autonomia però sono rimasti in gran parte inattuati.

L’invito all’integrazione e alla collaborazione contenuto nella Legge Berlinguer è stato colto sopratutto sul piano di principio; nei fatti, però, la distinzione è rimasta netta. Per questo motivo la presenza delle scuole non statali è andata progressivamente diminuendo nel corso degli anni, con un notevole ridimensionamento nella secondaria di primo e secondo grado, che oggi accoglie solo il 4 – 6% del totale degli iscritti: cioè una quota irrilevante del sistema, che ormai è quasi del tutto statalizzato. Infatti le scuole paritarie nel 2013 accoglievano il 38% di alunni nella scuola dell’infanzia il 7% nella scuola primaria, il 4% nella secondaria di primo grado, il 6% nella scuola secondaria di secondo grado e, per quanto riguarda il sostegno alle famiglie, lo Stato sostiene per le scuole paritarie un costo di 310 euro, 764, 93 e 47 rispettivamente per le scuole dell’infanzia, delle primarie, delle secondarie di primo grado e delle secondario di secondo grado a fronte di un costo per le scuole statali di 6.300 euro, 6.500, 7.100 e 7.000.

Tabella 3

Spesa pubblica per allievo delle scuole statali e paritarie – 2010

Scuole Popolazione Alunni delle Alunni delle Spesa pubblica Spesa statale Spesa

scolastica scuole statali scuole paritarie totale per le (solo Miur) per studente

totale scuole statali * per le scuole di scuola

statale paritaria

in milioni di euro in euro

Infanzia 1.620.000 970.000 650.000 6.100 332 6.300 510

(38%)

Primaria 2.795.000 2.600.000 195.000 17.000 149 6.500 764

(7%)

Secondaria 1.765.000 1.690.000 75.000 12.000 7 7.100 93

di I grado (4%)

Secondaria 2.710.000 2.560.000 150.000 18.000 7 7.000 47

di II grado (5%)

Totale 8.890.000 7.820.000 1.070.000 54.000 495 6.800 463

(13%)

*Il finanziamento del Miur per le scuole paritarie è talvolta integrato a livello locale con contributi, difficilmente quantificabili, delle Regioni e degli Enti locali. Tali contributi, sopratutto al Nord e per le scuole dell’infanzia ed elementari, possono raggiungere una consistenza pari a quella del finanziamento statale.

Fonte: Miur, La scuola in cifre, 2011; Dossier Agesc, 2012.

Come si vede il quadro complessivo rimane fortemente sbilanciato verso la scuola dell’infanzia, che da sola rappresenta quasi due terzi del totale. Proprio per questo, se Renzi avesse voluto veramente affrontare e risolvere il problema, avrebbe dovuto agevolare in particolare proprio le famiglie che mandano i loro figli nelle scuole secondarie superiori. Mentre proprio queste sono state ancora una volta discriminate e penalizzate. Oltretutto in un momento di forte crisi economica che sta determinando la diminuzione di tanti iscritti e quindi la chiusura di molti istituti scolastici paritari.

L’EUROPA DELL’EDUCAZIONE

Eppure in tutta Europa le situazioni sono totalmente ribaltate.

Il sistema inglese è fra quelli in cui le scuole dispongono di maggiore autonomia operativa. L’idea di base non è cambiata: la scuola è in primo luogo di chi la frequenta (studenti e famiglie). Ai poteri centrali spetta di fornirle gli strumenti per funzionare, di fissare obiettivi alti (ma generali), di mettere a punto strumenti di controlli e verifica. Ma le scuole hanno larghissimi margini di scelta negli orari, nelle materie, nei metodi di valutazione; e, sopratutto, nella selezione ed assunzione dei propri docenti.

In Francia, dove la scuola non statale copre il 18% di tutta la popolazione scolastica, dopo quasi un secolo di “guerre scolaire”, le leggi Debrè del 31/1/1959 e dell’1/6/1971 e quella Guemeur del 25/11/1975 hanno creato un sistema misto che prevede quattro categorie di scuole: quelle integrate, in pratica statizzate, quelle che godono di libertà assoluta e non ricevono alcun sussidio; quelle a contratto semplice, nelle quali gli insegnanti sono forniti del cosiddetto “gradimento” dello stato, per cui da esso ricevono la retribuzione ed a suo carico sono gli oneri sociali; quelle, infine, “associate” che usufruiscono di finanziamenti per il loro funzionamento. Contro questa libertà d’insegnamento, come si ricorderà, tentò di lanciare un vero e proprio siluro il socialista Savary con un progetto di legge che mirava in pratica alla statizzazione di tutte le scuole, ma che poi dovette essere ritirato per le oceaniche manifestazioni di Parigi e di Lione.

In Belgio la scuola non statale rappresenta ben il 60% dell’intero sistema educativo e fin dal 1959 riceve dallo stato i fondi necessari per le rette, per il personale, per la gestione e la costruzione degli stessi edifici scolastici. Quindi qui lo stato sopporta sia le spese di gestione che d’investimento. Le famiglie, perciò, hanno la più ampia libertà di scelta, dal momento che i finanziamenti vengono assicurati a tutte quelle scuole ritenute valide, anche a quelle private strictu sensu.

Nella Germania Federale, così come avviene in Gran Bretagna, la maggior parte delle scuole fanno capo alle amministrazioni dei singoli Laenders, che assicurano nell’ambito della scuola pubblica che il diritto naturale all’educazione dei figli sancito dalla Costituzione del 1949 e ripreso dalle legislazioni scolastiche di tutti i Laenders, possa essere concretamente ed agevolmente esercitato scegliendo, ad esempio, scuole di confessioni religiose conformi ai rispettivi convincimenti. Le rimanenti scuole private usufruiscono di contributi statali anche se parziali, per la manutenzione degli immobili, per il pagamento del personale all’85% e per le pensioni al 90%.

In Olanda, dove la scuola statale assicura il servizio a solo il 30% degli studenti, frequentando tutti gli altri le scuole non statali, lo stato stanzia le stesse provvidenze per i due tipi di scuola. Sono stati adottati così principi di completa uguaglianza, ritenendosi che tutte le scuole svolgano un servizio sociale, purché, naturalmente, non abbiano scopi di lucro.

Il principio di base è che “il denaro segue i piedi degli studenti”. Ciò significa che le scuole, ottengono risorse finanziarie dallo Stato in base al numero di studenti. La cosa più importante è che tutte le scuole dello stesso settore sono trattate allo stesso modo, indipendentemente dal loro status “pubblico” o “privato”. Dopo i cambiamenti negli ultimi decenni in materia di istruzione e formazione professionale, in questi settori ci sono ormai solo istituzioni governate da privati. Esistono ancora scuole pubbliche nell’istruzione primaria e secondaria e sono frequentate come diceva da circa il 30% degli studenti. La grande maggioranza degli studenti olandesi frequenta quindi scuole private.

Nella Spagna, nonostante vari governi socialisti abbiano tentato di delimitare e comprimere sensibilmente l’autonomia della scuola non statale che raccoglie il 38% dell’intera popolazione studentesca e che è costituita per la maggior parte da scuole cattoliche, lo stato, pur esercitando una certa vigilanza ed avendo inserito propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle singole scuole, assicura finanziamenti pubblici di una certa consistenza.

E l’elenco potrebbe continuare con l’Irlanda, la Svezia e la Danimarca, paesi nei quali non vige alcuna penalizzazione per le scuole private che, viceversa, sono messe sullo stesso piano di quelle statali.

In pratica in tutto il mondo, scrivono Andrea Ichino e Guido Tabellini su “Il Sole 24 Ore”, «Per realizzare una vera autonomia, all’estero si osservano nuove forme di scuole gestite da privati ma regolate e finanziate dallo Stato, con fondi che seguono le scelte delle famiglie, l’esempio più noto è quello delle Charter schools americane… I nuovi modelli di autonomia scolastica sperimentati all’estero ci consentirebbero di fare un uso migliore delle risorse finanziarie disponibili e di attirare docenti capaci di offrire quel che le famiglie (non il ministro di turno) davvero desiderano per i loro figli».

In Italia, invece, siamo ancora fermi, per quanto riguarda la parità di trattamento economico alle dichiarazioni di principio ed alle proposte di legge (nel dopoguerra ne sono state presentate decine – anche da parte di chi scrive – e nessuna è stata mai nemmeno discussa in assemblea), nonostante negli ultimi tempi siano intervenute indicazioni legislative e delle pronunce giurisprudenziali che hanno iniziato a incrinare l’intransigente monolitismo della nostra politica scolastica, che è stata scalfita solamente della legge più volte ricordata dall’ex Ministro Berlinguer.

In conclusione, nessuno vuole contrapporre la scuola non statale a quella dello stato per una “revanche” confessionale o per sostituire una supremazia ad un’altra, che risulterebbe anch’essa sterile ed improduttiva, avendo di vista un servizio scolastico pubblico che veda integrarsi i due tipi di scuola che hanno ambedue una rilevanza giuridica pubblicistica, perché pubblico è il servizio che svolgono e che offrono alla nostra società.

Per il resto le proposte che attualmente sono sul tappeto e che puntano o sul buono scuola o sul finanziamento della funzione docente; sulla possibilità di detrarre dalle tasse gli importi delle rette pagate alle scuole non statali o, per ora, su una particolare normativa per la scuola materna, su finanziamenti erogati direttamente agli enti gestori delle scuole o sull’attribuzione dell’autonomia gestionale, amministrativa e didattica a tutte le scuole statali e non, potranno essere vagliate compiutamente in altra sede e nell’ambito di un progetto più vasto che riguardi l’intero sistema dell’istruzione italiana.

Resta perciò l’obiettivo comune di restituire ai cittadini quella ampia autonomia decisionale che è stata loro progressivamente confiscata dall’invadenza di uno stato assistenziale e clientelare: uno stato tanto più invadente quanto più burocratico, tanto più costoso quanto più inefficiente. Perché come scrisse sul “Corriere della Sera” Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: “È davvero arrivato il momento di dare una svolta. Non con grandi rivoluzioni…… per chi frequenta le paritarie, estendendo metodi di finanziamento già condivisi tra le diverse forze politiche, quali i voucher, i buoni scuola o altri contributi alle famiglie (attivi in diverse regioni tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia) e prevedendo la detraibilità fiscale delle rette pagate dalle famiglie”. Per ora però sulla libertà di educazione, arriva un’altra “mazzata” con le due sentenze con cui la Corte di cassazione ha dato ragione al Comune di Livorno ed ha imposto a due scuole cattoliche di pagare l’Ici, mettendo a rischio anche l’esenzione dall’Imu, per importi consistenti. Le scuole private in Italia sono circa 13 mila, in prevalenza cattoliche nei primi ordini di studio e laiche fra gli istituti secondari, se fossero assoggettate integralmente all’Imu potrebbero vedersi presentare ogni anno un conto di circa 500 milioni. Ed a questo punto molte di queste scuole veramente potrebbero chiudere.

Riccardo Pedrizzi